Caro amico ti scrivo … da una Rsa

Sì, hai capito bene, proprio da lì.

Ti scrivo proprio da lì per raccontarti una storia diversa da quelle che avrai letto sui giornali o su Facebook. Ti scrivo per provare a cambiare le parole di una narrazione che ha dipinto queste realtà come “scandalose zone grigie” prive di luce, di slancio, di visioni. Ti scrivo proprio da lì e mi perdonerai se partirò da lontano …

Quando mi chiedono di parlare del mio lavoro di educatrice in Rsa, uso spesso l’immagine del gomitolo. È il simbolo delle attività che proponiamo (attente alla valorizzazione delle competenze e delle capacità residue); è il simbolo della memoria, del filo dei ricordi che, a volte, si annoda e si aggroviglia e ha bisogno di qualcuno che aiuti a dipanarlo e distenderlo; è il simbolo della rete delle relazioni costruita nel tempo: tra anziani residenti, tra anziani e operatori, tra anziani e territorio (volontari, associazioni, scuole, biblioteca, comune, parrocchia, esercizi commerciali, …). Il filo esce dalla Rsa e percorre le strade del territorio arricchendolo, per poi ritornare all’interno della struttura a sua volta arricchito di nuovi fili e di nuovi colori.

Il 24 febbraio, con la chiusura della Rsa, il filo è stato improvvisamente tagliato. Il gomitolo è diventato sempre più piccolo, i colori sempre più sbiaditi. E dentro – all’interno della struttura e dentro ciascuno di noi – il filo si è aggrovigliato e annodato sempre di più. Abbiamo visto gli occhi dei nostri anziani spegnersi di nostalgia, abbiamo letto nelle loro parole la difficoltà a compendere l’isolamento forzato da figli, nipoti e conoscenti. Il nostro quotidiano lavoro di relazione è diventato ancora più importante e necessario per compensare con un “di più” di vicinanza, per provare a raccontare “cose belle” e dire parole calde e accoglienti. La vita in Rsa si è spenta ancora prima che iniziassimo a contare i morti. Perché, alla fine, anche da noi in tanti se ne sono andati. Nei 15 giorni di malattia trascorsi a casa all’inizio di marzo, ho continuato a ricevere notizie di tante persone che ci stavano lasciando, con le quali avevo condiviso pezzi di strada significativi. Persone, non numeri. Persone, non semplicemente “vecchi” facilmente e naturalmente sacrificabli sull’altare del contagio solo perchè, appunto, “vecchi”. Io conserverò per sempre il ricordo grato di tutto ciò che ho condiviso con loro e con le loro famiglie.

Il rientro al lavoro verso la metà di marzo è stato sconvolgente e spiazzante. Gli occhi smarriti degli ospiti sani, quelli sbarrati dei malati in isolamento, attaccati ai respiratori. Giorni in cui molti di noi erano quasi paralizzati di fronte a una quotidianità lavorativa completamente stravolta. Giorni in cui abbiamo cercato e preparato le corone del rosario perché gli addetti alle pompe funebri non ne avevano più. Giorni passati a piantare fiori nel giardino della struttura in ricordo dei nostri defunti. A pregare. A cercare qualcuno che ci “ricambiasse gli occhi” per sostenere istanti diventati immensi.

E una domanda, forte e incessante: che senso ha tutto questo? Che senso ha, ora, il mio lavoro?

E la risposta è arrivata inaspettata in un momento particolare, tragico e insieme ricco di grazia: la videochiamata – l’ultima –  delle figlie alla madre, la signora F. La risposta alla mia domanda è arrivata attraverso le loro parole: “Accarezzala tu per noi”. Quanta fiducia in queste parole! E la consapevolezza – ritrovata – di essere affidati gli uni agli altri. Nelle mani di altri. Affidamento e offerta reciproci: la danza della cura. Una danza che non ci chiede di essere donne e uomini perfetti e buoni, o eroi, ma semplicemente umani. Consapevoli dell’importanza delle relazioni.

Eccolo il senso vero del mio lavoro. Anche il gesto che non riesce a salvare, ma continua a curare, ha un valore preziosissimo: il valore dell’accompagnamento (ed è anch’esso vittoria…). In questi mesi ci siamo trovati impauriti e smarriti, presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Come operatori, tra colleghi, ci siamo resi conto di trovarci tutti sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma soprattutto tutti importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda, tutti bisognosi di uno sguardo buono da sopra la mascherina e dietro gli occhiali protettivi.  Ci siamo sentiti, a volte, impotenti. Impotenti, ma attenti. Attenti a preservare l’umano. Anche solo attraverso una carezza. Quante volte abbiamo banalizzato questo gesto! Ricevere una carezza è “sentirsi di qualcuno” e accarezzare è chinarsi sulla vita, anche sulla vita morente, con rispetto, delicatezza e attenzione. È entrare a piedi nudi nello “spazio sacro” dell’altro: nella sua storia e accanto al suo corpo, che mi parla, mi interpella, mi mette alla prova nella mia capacità di vicinanza, di empatia, di cura, di tenerezza.

Caro amico, non so se si troverà mai un vaccino contro questo virus, ma so per certo che ciascuno di noi (chi guida le Rsa con impegno, dedizione e responsabilità e chi le anima col proprio lavoro e la propria umanità) è stato e potrà continuare ad essere “vaccino” contro l’incuria, l’indifferenza, l’abbandono, lo scoraggiamento.

Ciascuno di noi potrà esserlo se sapremo far crescere, nel terreno quotidiano delle nostre vite, i semi buoni di una ritrovata umanità.

La foto che ho scelto è la stessa che ho usato quest’anno per lo scambio di auguri pasquali tra colleghi. Una foto scattata nel mese di marzo e un augurio scritto in piena “fase 1” ma, credo, valido per tutte le “fasi” che saremo chiamati a vivere come singoli e come comunità.

Scorrendo il mio archivio fotografico ho trovato questa fotografia scattata involontariamente … la stavo cancellando, ma poi il cielo azzurro mi ha attratta e colpita. Tutto lo spazio è occupato da un cielo azzurro senza nuvole. E poi lì, nell’ angolo, un volto coperto da tuta e mascherina. Un volto che ci ricorda il dramma della passione, mai così reale e autentico come in questi giorni … Eppure è in un angolo. Prevale la speranza di un cielo terso. Prevale l’azzurro della vita che non è mai stata così in attesa e piena di speranza nella Resurrezione. Eppure segni di Resurrezione già ci sono, già li vediamo nel nostro spontaneo senso di fraternità, nella dedizione e nell’ impegno, nel coraggio e nell’ attenzione degli uni verso gli altri …

Di Silvia Spolti

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